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Il cognome delle donne di Aurora Tamigio: cosa resta dell’eredità delle donne?

“Lo sapete, vero, che il cognome delle donne è una cosa che non esiste. Portiamo sempre quello di un altro maschio.”

“Comincia tu a tenerti il tuo, e poi si vede.”

Il cognome delle donne nel nostro paese non è mai esistito. 

Alla nascita fino a un anno fa al bambino veniva immediatamente attribuito il cognome del padre e pochi anni addietro sposarsi significava cambiare cognome e vedersi sostituire a quello con cui si era nate quello del proprio marito.

Il pensiero di poter portare avanti la propria eredità di donne in modo “ufficiale”, di poter rendere visibile la propria importanza nella reazione di una famiglia è stato per lungo tempo impossibile. 

Nasci sotto un uomo e muori sotto un uomo e pure quando per 9 mesi tieni nel tuo corpo un’altra creatura poi quando finalmente viene alla luce il marchio di produzione non è il tuo ma quello dell’uomo.

Ed è questa la storia che Aurora Tamigio nel suo romanzo d’esordio racconta, quella di un diritto all’esistenza strappato dalle avide mani di chi per il solo fatto di appartenere al genere predominante pensa che tutto gli sia concesso e che possa prendersi anche ciò che non è  suo.

Questo libro merita di essere letto perché racconta di donne che si incazzano o che si paralizzano, che reagiscono o che subiscono in silenzio, che alle volte risultano eccessivamente scorbutiche, eccessivamente diffidenti ed eccessivamente violente ma che lottano per la loro vita e per diritti come la casa, il lavoro, l’eredità e la proprietà che non sempre alla donna vengono garantiti.

Le donne devono leggere questo libro per ricordarsi che sono nate senza un proprio cognome, ossia senza diritto a esistere autonomamente, senza nulla che loro appartenga, compreso il diritto a vivere o a morire. Le donne si devono ricordare di questo ogni giorno e di urlare, scalciare e se necessario lanciare coltelli per proteggere il loro cognome.

Siamo nate in terra straniera.

SPOILER ALERT!!!!!

La storia è ambientata in Sicilia tra i primi anni e la metà del secolo scorso e si sviluppa operando ogni volta un focus su una protagonista femminile diversa e sullo scorrere della vita in famiglia dal suo punto di vista.

Il primo dei racconti si concentra sulla matriarca della famiglia, Rosa, una donna nata in un piccolo paesino, con una forza e una rabbia magnetica fin dalle prime pagine. Il padre, come molti altri padri dell’epoca, la picchia per qualsiasi sciocchezza: stanco, ubriaco, per colpe certe o presunte. Così un giorno, avendo ormai appurato che la tecnica del “raggomitolarsi e sperare di sopravvivere” non le si confaceva, scappa con Sebastiano Quaranta che «non aveva padre, madre o sorelle perciò Rosa aveva trovato l’unico uomo al mondo a non saperle suonare.»

Così con quell’uomo buono e gentile forse proprio perché nessuno gli aveva mai insegnato quali fossero i mores del “padre padrone” Rosa crea una casa, una famiglia e una piccola attività. L’Osteria è la prima di molte idee del libro che originano da uomini per poi venire portate nel concreto avanti da donne. E così nell’Osteria di Sebastiano a cucinare e gestire tutte le pratiche sarà per lungo tempo Rosa insieme ai suoi figli. 

Definirei Rosa come una “macchina da sopravvivenza”: ha imparato molto velocemente quale fosse l’epilogo delle donne sotto l’egida degli uomini ed ha provveduto velocemente a sottrarsi a quel destino. Per molta della popolazione del luogo Rosa è scorbutica, violenta ed acida. Io preferisco definirla “proattiva”, in quanto percepisce possibili problemi (uomini pretenziosi, violenti, maneschi, poco rispettosi) in tempo e li anticipa.

Rosa manda avanti l’Osteria ed i tre figli (Selma, Donato e Fernando) anche dopo la scomparsa del marito in guerra raccogliendo una piccola fortuna che lascerà in eredità alla figlia Selma una volta sposata (anche se non potrà impedire al marito di sua figlia di rubargliela).

Per la sua eredità verso i figli ma soprattutto verso Selma, Rosa si batte senza tregua. Si batte prima ancora che nasca per lasciarle del denaro ed una volta nata le parla “fitto fitto” nelle orecchie da subito, cercando di insegnarle come possa “vivere” e non solo sopravvivere in un mondo di uomini. Per tutta la sua vita continua per quanto possibile a insegnare tutto quello che sa alle femmine della sua famiglia, in particolare alla nipote Lavinia, alla quale tramanda i segreti di cucina tanto quanto le fattucchierie e i rimedi naturali.

«In cortile, era stata smentita: sua nonna stava bene, almeno di salute, ma tanto era furiosa che pareva una creatura maligna. I capelli le stavano dritti in testa, gli occhi erano iniettati di sangue, le mani ad artiglio si allungavano verso Santi a volergli afferrare il collo per tirarglielo come un tacchino. […] “Malacarne, l’ho sempre saputo che eri un ladro. I soldi della figlia mia, come ti sei permesso?” “I soldi di mia moglie sono soldi miei” era stata la risposta di Santi.»

Il secondo dei racconti riguarda Selma, la più piccola della cucciolata. Selma nasce senza fare rumore e di questo la madre si angustierà per tutta la vita. A differenza della madre Rosa ha un carattere mite e poco reattivo. In adolescenza si innamora del cucito sino a diventare un portento ma prima la malattia e poi il matrimonio affievoliranno la passione giorno dopo giorno. Quella di Selma è una vita paragonabile ad una candela accesa, la cui fiamma a volte è forte e vivace ma nella più parte dei casi viene indebolita da un soffio di vento e si consuma senza tregua. 

Come detto non gode di ottima salute e viene colpita più volte nella sua vita da diverse malattie. La peggiore di tutte è però il marito che dal primo momento in cui la vede capisce di aver trovato la preda perfetta. Il marito, Santi Maraviglia, la consuma giorno per giorno: ne abusa sessualmente, ne ruba l’eredità e la chiude nella nuova casa in città (acquistata con l’eredità della moglie) dove cade in frequenti episodi depressivi sino a morire di malattia.

Per le figlie non riesce a salvare nulla a livello economico e spesso si sente impotente di fronte alle violenze che le tre figlie (Patrizia, Lavinia e Marinella) si trovano a subire.

Forse la più bella eredità Selma lascia, anche se inconsapevolmente, è che di fragilità e mitezza in un mondo di uomini si muore.

«Dopo il primo mese, da Santi ormai Selma si faceva spogliare e rigirare nel letto senza più preoccuparsi che fosse giorno, pomeriggio o notte, che quelle fossero le maniere buone oppure no. Non si lamentava, non chiudeva gli occhi, non c’era più nemmeno un livido su di lei.»

La terza storia è quella di Patrizia che invece sin dagli esordi ha un carattere molto più simile a quello della nonna. Non rimane succube del padre neanche da bambina ma reagisce anche a costo delle mazzate. 

Rimane acida e diffidente proprio come nonna, e nel momento in cui i soldi iniziano a mancare si fa in quattro per mantenere la famiglia o dare alle sorelle la possibilità di studiare e di vivere. 

L’eredità non è capace di prenderla alla morte della madre, né nel momento in cui le tre sorelle vengono cacciate dalla casa del padre; tuttavia ritornerà con la sorella Lavinia a riprendersi la macchina da cucire di Selma per riuscire a recuperare se non tutto quello che le spettava, almeno gli oggetti sentimentalmente più preziosi.

Patrizia non si limita solo a salvare l’eredità ma spesso a salvare le sorelle stesse: di fronte al tentativo di stupro di un amico del padre verso Lavinia infatti la donna non ci pensa due volte a lanciargli un coltello.

«Santi Maraviglia fissava il coltello che Patrizia gli impugnava contro. Se gli avessero detto, la sera della processione di San Benedetto quando aveva conosciuto Selma Quaranta, che quella donna minuta e delicata gli avrebbe dato una figlia capace di puntargli un coltello addosso, Santidivetro sarebbe scappato per i quattro angoli del mondo pur di non finire sposato.»

La quarta storia è quella di Lavinia, nell’approccio con il sesso maschile molto più simile alla madre. Si concede a differenza della sorella di essere romantica e di sognare di attori del cinema e di pensare persino di diventare una modella. Ma in un universo dove bella è uguale a sessualmente attraente e dunque preda maschile non le verrà permesso.

Lavinia passa con la nonna Rosa moltissimo tempo ed apprende moltissime cose come la cucina e le cure magiche ma sfortunatamente non eredita da lei la capacità di reagire con le unghie. 

«La mamà le aveva spiegato la buona creanza per sfuggire ai maschi che si prendevano libertà per strada, ma Lavinia non se ne faceva niente se doveva difendersi nel soggiorno dove un tempo Selma sedeva alla Singer o nella cucina in cui Rosa le aveva insegnato a chiudere gli arrosti con lo spago. Tutto quello che sua madre e sua nonna le avevano tramandato serviva a sopravvivere, come se Lavinia fosse un cerbiatto o qualche altro stupido animaletto delizioso o saporito, che non aveva altro scopo nella vita che offrire nutrimento a chi era nato per assaltare. Si sentiva una cosa a metà, né piccola né grande, di quelle che non facevano rumore né occupavano spazio. Ecco perché Valentino l’aveva scelta.»

La quinta ed ultima delle sorelle è Marinella, che grazie probabilmente alle vicende vissute in famiglia sviluppa da subito un forte istinto di conservazione e soprattutto l’assoluta mancanza di reverenza verso il mondo maschile (che invece le sue amiche hanno). Non assume un atteggiamento compiacente nei confronti dei bei ragazzi dell’ultimo anno e non se ne fa abbindolare, sapendo che dietro quelle parole cortesi si cela un interesse fasullo nei suoi confronti. Purtroppo però le parole di una donna non sempre stabiliscono un confine preciso per un uomo, più un muretto o una staccionata che in fondo se si scavalca nessuno dice nulla. Nessuno si oppone.

« “Maraviglia, io ti ho capita a te: con questi occhioni che hai, ci vedi più lungo di tutte le altre.” […] “Alle feste mi annoio. Fammi una sigaretta. Andiamo a cercare la mia amica. Mi piace questo fatto che dici no per dire sì, non m’era successo mai prima.”»

L’idea davvero geniale dell’autrice è l’attenzione portata all’idea del cognome del padre, che viene dato sin dalla nascita proprio come un marchio o come uno dei ricami di Selma sui vestiti delle figlie. M di Maraviglia, cosicché ogni volta che la donna si aggiri per la città tutti sappiano non tanto chi è, ma chi è suo padre, a chi appartieni. 

Ebbene quello che le protagoniste di questo libro sperimentano e che, un po’ come delle sorelle maggiori, ci vogliono ricordare è di non accettare di vivere sotto il cognome altrui ma piuttosto di affermare con le unghie e con i denti il proprio. Di non subire per non avere rimorsi, di non sopportare e quando necessario anche di rispondere male, poiché quando il rispetto, la gentilezza e la generosità sono a senso unico allora si parla piuttosto di reverenza, di schiavitù e di sottomissione.

Sofia Seghesio

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Sofia Seghesio

Classe 2001. Non sono assolutamente in grado di definirmi. Pessima partenza per un* scritt*, lo so. So di me che sono curiosa ma a volte superficiale ed è proprio scrivere che mi aiuta ad andare in fondo alle questioni per capirle veramente. Nutro un interesse magnetico verso le persone: per quello che fanno e pensano. Per questo non posso fare a meno di interagirci, che sia attraverso un libro, un film, una chiacchierata. Spero dunque di potervi portare con me all’interno di qualche fantastica storia o che possa avere l’onore di raccontare la tua.
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