L’arte estrema – Gli artisti che hanno fatto follie in nome dell’arte
di Marzia Figliolia
Gli artisti sono, da sempre, i primi trasgressivi: che si tratti di rompere le regole di utilizzo dei materiali di volta in volta prestati alle loro opere, o sperimentare fin dove è possibile mischiare l’arte con la vita, sono loro ad aver testato i limiti della propria attività, sempre con l’obiettivo di superarli.
Eppure, alcuni artisti si sono spinti oltre: oltre i limiti di loro stessi, per mettere alla prova la loro propria resistenza in nome dell’arte. Ne abbiamo raccolto alcune delle performance più eclatanti, dagli anni ’70 ad oggi.
ORLAN, The Reincarnation of Saint Orlain – 1990/1995
All’età di 15 anni, la piccola Mireille Suzanne Francette Porte decise che sarebbe diventata una performer, e che il suo nome sarebbe stato ORLAN. Questa fu solo la prima delle innumerevoli rinascite che caratterizzano la sua carriera di transizioni e trasformazioni.
Tra il 1990 ed il 1995, infatti, l’artista scelse di sottoporsi a ben nove interventi di chirurgia plastica, ognuno con lo scopo di renderla simile a grandi opere d’arte del passato: si fece praticare delle iniezioni sull’arco sopraciliare per assomigliare alla Monna Lisa di Leonardo; rimodellò il mento sulla figura della Venere di Botticelli; alterò la forma della bocca per richiamare quella della protagonista della tela Il ratto di Europa di Fraçois Boucher. Sempre vestita in abiti dal sapore barocco, ORLAIN ha scelto di rimanere lucida durante ognuno degli interventi, spesso accompagnati da musiche o letture di poesie.
Chris Burden, Shoot – 1971
Forse la prima, sicuramente la più controversa tra le performance considerate “estreme”, nella sua opera video di 8 secondi Chris Burden mette in pratica cosa significa rischiare le propria vita per l’arte: mentre l’artista concettuale resta immobile, a 15 metri da lui un uomo con un fucile calibro 22 prende la mira… E gli spara, colpendolo alla spalla sinistra.
Burden fu il primo a teorizzare l’arte come uno spazio di rischio concreto, in cui l’artista rischia ogni giorno, letteralmente, la propria vita. In altre performance, Burden si lascia crocifiggere su una Volkswagen Beetle (Transfixed, 1974), e rinchiudere in un armadietto scolastico, nel quale sopravvive per cinque giorni (Five Day Locker Piece, 1971).
Ai WeiWei, Straight – 2008/2012
L’artista dissidente cinese Ai WeiWei è noto per i suoi lavori che uniscono arte e artigianato, sviluppando entrambe su grandezze impensabili, come con i 100 milioni di semi di girasole di porcellana, interamente dipinti a mano nel 2010 per l’esposizione alla Tate Modern di Londra, o come quando incollò insieme 1200 biciclette per il progetto Forever Bicycle, nel 2003.
Ebbene, in Straight, Ai WeiWei lavora e raddrizza 150 tonnellate di tondi di cemento armato provenienti dai palazzi sventrati dal terremoto che devastò la zona di Sichuan nel 2008, uccidendo almeno 7000 persone. Per celebrare queste vittime innocenti, dal 2008 al 2011 Ai WeiWei lavora per raccogliere i tondi, raddrizzarli e ricomporli, svolgendo parte di questo lavoro anche durante gli 81 giorni di detenzione ordinati dal governo cinese nel 2011.
Marina Abramovic, 512 Hours – 2014
Una delle prime ad utilizzare la performance come mezzo espressivo della propria arte, Marina Abramovic ha speso la sua intera carriera nell’intento di trasportare non solo lei stessa, ma tutto il suo pubblico verso i confini ultimi della propria resistenza fisica e psicologica.
Per 512 Hours, l’artista ha invitato 160 persone alla volta ad unirsi a lei all’interno di una Galleria vuota. Ha imposto loro di scambiare i cellulari, gli orologi e gli affetti personali per delle cuffie antirumore, e poi li ha guidati in una lenta, lentissima visita attraverso gli spazi bianchi e vuoti, incoraggiandoli a prestare attenzione alle pareti, a loro stessi, al silenzio e all’assenza di movimento.
Per otto ore al giorno, sei giorni su sette per 64 giorni non ha fatto altro, e cioè non ha “fatto niente”, e proprio qui sta l’enorme difficoltà di questa performance alla quale sottoporre se stessa e il pubblico: quasi 60.000 persone sono passate tra quelle stanze, e ogni partecipante parla dei sentimenti che vi ha incontrato, tra trascendenza, calma, elevazione e fino ad arrivare alla tristezza, alla paura, al terrore…
Robert Smithson, Spiral Jetty – 1971
La Spiral Jetty di Robert Smithson è stata una delle prime operazioni di Land Art mai sperimentate, sulla costa nordorientale del Great Salt Lake in Utah, Stati Uniti. Stanco delle convenzioni dell’arte creata per le gallerie, Robert Smithson si è rivolto alla natura stessa come materiale per le sue immense, scenografiche opere d’arte, che vengono su dalla mera terra e dalla luce del sole.
In soli sei giorni, grazie a un costruttore della zona, nel 1971 Smithson creò una forma a spirale composta di cristalli di sale, fango, acqua e rocce di basalto nero che si immerge per più di un chilometro al largo del lago. L’opera, che appare e scompare a seconda dei moti delle maree, creando così un costante dialogo con la natura nella quale è immersa, è visibile nella sua interezza solo dall’alto del cielo.