De André: la Gallura come arma di liberazione collettiva
di Lisa Scartozzi
Anarco – individualista, cercò la libertà per sé e per gli altri, per gli ultimi, per i derelitti, gli assoggettati al potere; si tratta di morti nell’anima, di coloro che “non hanno ricevuto amore, o se mai questo è accaduto, l’hanno avuto nella maniera sbagliata”.
È il mondo di tutti i diseredati, dei perseguitati, di coloro che la società calpesta condannandoli a una sorta di morte morale, privandoli anche della loro primitiva innocenza. È il mondo di Fabrizio De André, uno dei maggiori cantautori italiani di tutti i tempi. È il mondo di cui si sente parte, di cui ascolterà il grido d’aiuto, di cui sarà portavoce.
La richiesta finale è rivolta ai potenti, ai quali si chiede pietà, un briciolo d’amore. Questa avviene in Anime salve (1996), un vero e proprio testamento, in cui De André tende un braccio alla comunità universale nel tentativo di liberarla dalle prigioni sociali in cui è chiusa.
Ma attraverso cosa arrivò alla conclusione di questo percorso? Come trovò i giusti mezzi, le giuste parole?
Era il 1975 quando Fabrizio De André, insieme alla compagna Dori Ghezzi, decise di acquistare quello che allora era un semplice e malmesso casale gallurese, oggi conosciuto come l’Agnata.
Fu proprio qui, in Sardegna, che De André riuscì a ritrovare la serenità della campagna da lui tanto ricercata sin dall’infanzia. Insieme al desiderio di vivere da contadino, ricavando il proprio sostentamento giorno per giorno, si univa quello dell’abbandono dell’attività musicale vista oramai come una necessità, una fonte di guadagno e dunque un rischio: quello di finire a scrivere per gli altri e non più per se stessi.
“Cosa farò io, me ne starò in disparte perché un artista che canti o scriva deve mantenere un equilibrio di giudizio guardando la realtà dalla cima di una montagna scegliendosi così la solitudine volontaria responsabile per quanto è possibile soltanto di se stessa, senza gregge né leggi”.
Nonostante la vita in Sardegna continuasse al meglio e regalasse al cantautore genovese soddisfazioni, egli non abbandonò mai la sua chitarra e la sua penna.
Anche attraverso tragici episodi come quello del rapimento, De André non smise mai di amare l’isola, di continuare a riempirsi di quella pace e di quella libertà finalmente conquistata. L’approdo alla solitudine volontaria del cantautore rappresentò l’ultimo tentativo di liberare se stesso, osservando la realtà svincolato dalle catene della vita in città, fatta di convenzioni e consumo.
Qui, attraverso l’autosostentamento ricavato dalla coltivazione e l’allevamento, egli non trovò altro che parole pure e sincere, mosse dal desiderio di dare voce alla minoranza contro gli abusi di potere.
La stabilità e l’equilibrio raggiunto costituirono per De André una vera e propria arma di liberazione collettiva poiché al dover scrivere si sostituì il voler scrivere. Al dover dire, subentrò il bisogno di dire, di riscattare gli ultimi. L’Agnata dunque, non rappresentò una fuga dall’impegno civile, ma un’ultima ricerca di uguaglianza e armonia. È dal riscatto personale, che egli riuscì ad operare per i più deboli.
Dalla propria liberazione egli riuscì a liberare le proprie parole, le proprie canzoni dai vincoli del guadagno. È da quest’incontaminata libertà, intesa ora in ogni senso, che egli riuscì a condividerla con chi da solo non era in grado di conquistarla.
Disegno di Alberto De Vivo Piscitelli