Perché non dovresti paragonare la tua vita a quelle che vedi sui social: una questione di desiderabilità sociale
Immaginatevi all’interno di una stanza, insieme a tutte le persone della vostra vita da cui più vi sentite giudicati. Sareste spronati ad essere voi stessi? Oppure, con maggiore probabilità, evitereste di menzionare quegli aspetti della vostra persona di cui vi vergognate, o che considerate negativi e socialmente poco appetibili?
Ecco, più o meno è questo ciò che accade nei social network: in una stanza molto più grande, arredata con mobili virtuali e che può contenere potenzialmente miliardi di utenti, dai quali, anche se facciamo fatica ad ammetterlo, vogliamo essere apprezzati e giudicati positivamente.
I contenuti che pubblichiamo negli spazi online hanno davvero molto poco di spontaneo. Nella maggior parte dei casi, atteggiamenti di disinvoltura e naturalezza diventano piuttosto una performance, una messa in scena: fingiamo di esprimerci sui social liberi da condizionamenti sociali, noncuranti del giudizio dei nostri contatti. Pubblichiamo uno scatto al mare privo di didascalia, falsamente frettoloso, affinché possa urlare: “Sono così felice che non ho tempo da perdere sui social”. Sulla stessa scia, confezioniamo post che enfatizzano i nostri punti di forza, i nostri successi o la parte leggera delle nostre relazioni personali. Nel retro di quella foto poi, nascondiamo le difficoltà di coppia, gli insuccessi lavorativi e i giorni tristi, così che nessuno possa vederli.
Se la spontaneità nei social network rappresenta infatti un’oasi nel deserto, ciò che, a cascata, invece, inonda questi spazi virtuali è proprio la desiderabilità sociale. Si tratta di questa tendenza a selezionare accuratamente solo quelle parti di noi che, sulla base dei giudizi e delle credenze collettive, riteniamo essere socialmente accettabili. Ciò che ci spinge a farlo è il nostro desiderio di essere apprezzati dagli altri, di sentirci parte di una comunità che ci riconosca e ci giudichi in maniera positiva. Desiderio che, chiaramente, non nasce con l’avvento dei social network: gli esseri umani sono animali sociali. Lo erano i nostri antenati e continuiamo ad esserlo oggi. Ciò significa che, per quanto possiamo occultarlo, abbiamo bisogno degli altri e siamo influenzati da costumi e credenze della società culturale in cui siamo immersi.
Potremmo pensare dunque che i social network non facciano altro che replicare ciò che accade, da sempre, nella “vita reale”, ma la verità è che, al loro interno, la desiderabilità sociale aumenta vertiginosamente rispetto agli spazi della socialità fisici. Questo, lo abbiamo visto, non è di per sé un male (è quasi funzionale al nostro desiderio di essere accettati come parte di un tutto), ma lo diventa quando ne siamo inconsapevoli.
I dispositivi mobili sono oggi il prolungamento dei nostri arti, al punto da diventare scontati, da non interrogarci sui meccanismi che li muovono, esattamente come non ci preoccupiamo di capire come si muovono le nostre gambe o le nostre braccia: tra i servizi che questi offrono, i social media sono entrati a pieno titolo tra gli elementi della nostra routine quotidiana, e in quanto tali, li usiamo meccanicamente, abitualmente e, soprattutto, inconsapevolmente. Costruiamo un ritratto edulcorato e parziale della nostra persona in maniera quasi naturale, inconsciamente. Tanto inconsciamente, che finiamo per diventarne vittima noi stessi: compariamo spesso la nostra vita a quelle che vediamo sui social, dimenticandoci che, esattamente come noi, anche gli altri mostrano solo il loro profilo migliore.
I social network sono diventati infatti una fonte inesauribile di paragoni, perché le nostre relazioni si estendono ben oltre il vicino di casa, l’amico di famiglia e quegli altri pochi individui con cui, prima dell’avvento dei social, ci si poteva confrontare. Abbattendo i confini fisici del nostro mondo invece, i social network ci permettono oggi di comunicare con una quantità di persone prima inimmaginabile e, quasi come se comunicare e paragonarsi fossero un binomio indissolubile, finiamo spesso per accostare la nostra vita a quella degli altri.
La notizia di un avanzamento di carriera spiattellata da qualcuno sui suoi profili social, diventa per noi immediato motivo di discredito personale: ci chiediamo se non stiamo procedendo a passo troppo lento nella vita, se dovremmo impegnarci di più, se riusciremo mai a sentirci realizzati come lui o lei. Magari però, a quella persona, quel lavoro in realtà non piace nemmeno, o chissà, forse non crede neppure di meritare quel successo (sindrome dell’impostore). Ancora, i sorrisi ostentati di quella coppia che sembra sempre unita e felice, mettono in discussione la nostra relazione: magari anche noi dovremmo essere più spensierati, come loro, o discutere di meno, come loro. Ci lanciamo in spasmodiche congetture, quando, magari, quella foto felice era stata scattata proprio per suggellare il momento di pace fatta dopo un brutto litigio. Insomma, la verità è che ciò che le persone nascondono sotto il tappeto non lo vedremo mai esposto in vetrina.
Piegarsi a bere da questa fonte inesauribile di paragoni è dunque infruttuoso, perché le sue acque non sono affatto dissetanti. Al contrario, il paragone può scatenare in noi inutili sofferenze, minare la nostra autostima e i tentativi di essere gentili con noi stessi. Se, dunque, questa pratica è di per sé sterile, attuarla con le vite patinate che vediamo sui social ha ancora meno senso, perché, lo ribadiamo, in questi spazi online il termometro della desiderabilità sociale registra temperature più elevate che mai. Andiamo a scoprirne i motivi.
- Non c’è più separazione tra identità online e offline: la prima fase dalla nascita del Web, denominata Web 1.0, era caratterizzata dall’anonimato dei nickname e da applicazioni come newsgroup, chat e forum. Le pratiche identitarie online e offline erano nettamente separate. Anzi, gli spazi online servivano piuttosto per sperimentare parti inesplorate della propria personalità e dar sfogo a pulsioni ed emozioni. Internet era un mondo di alter ego, identità alternative assolutamente scollegate rispetto alla vita reale, che trovavano spazio per esistere, appunto, nell’anonimato. Con l’avvento del Web 2.0, ossia la nascita dei social network, siamo poi passati da questa condizione di “opacità”, alla trasparenza di profili social stracolmi d’informazioni personali, ma soprattutto, con la nostra faccia ben visibile, proprio nella parte più alta del nostro profilo personale. Da quel momento in poi, identità reale e virtuale sono diventate due facce della stessa medaglia e la costruzione dei profili social è diventata un atto performativo di creazione di un’identità che non è riferita a un io introspettivo, bensì a qualcosa di accessibile dall’esterno, che possa soddisfare le aspettative degli altri. È evidente, che solo quando queste aspettative sociali non contano più, perché appannate dall’anonimato di un nickname, o dei più attuali account fake, le persone si sentono libere di mostrare desideri ed emozioni altrimenti taciute in rete (nei casi più estremi, finanche a mostrare la parte più oscura e segreta del proprio volto: pensiamo ai tanti messaggi di odio diffusi, puntualmente, con account falsi che nascondono la vera identità di chi scrive).
- I contenuti permangono in rete: i contenuti permangono online perché le piattaforme ne supportano la durata nel tempo. Ciò vuol dire che le memorie digitali tengono traccia di ciò che comunichiamo in rete. Consapevoli di questo, gli utenti dei social tendono a tacere le proprie opinioni minoritarie, cioè quelle contrarie al pensiero collettivo: la spirale del silenzio è un’espressione coniata per indicare proprio le zone d’ombra mediatiche, le opinioni che, per timore di andare contro la maggioranza, le persone tendono a celare, destinate così a morire nel silenzio. Questa teoria risale agli anni Ottanta, e quelli accusati di silenziare le idee minoritarie erano dunque i mass media come giornali e televisione. Utopicamente, si pensava che tale teoria sarebbe stata annullata dal digitale, che avrebbe portato con sé una maggiore libertà d’espressione, anche di quelle opinioni lontane dagli standard sociali. Per poi scoprire, invece, che in rete la desiderabilità sociale è ancor più ricercata dagli utenti, consapevoli che le tracce delle proprie opinioni divergenti non verrebbero mai lavate via dal tempo.
- I contenuti sono soggetti ad un’ampia visibilità: i social media consentono di condividere i contenuti in modo semplice con un ampio pubblico, favorendone la visibilità. Tale visibilità si traduce in una maggiore attenzione all’impressione che diamo di noi agli altri: se dovessimo fare un discorso dinanzi ad una platea di duecento persone, nessuno di noi si preoccuperebbe di essere se stesso, come quando conversa coi suoi quattro amici al bar. Tutti cercheremmo di riflettere bene su cosa dire, quali sono i nostri punti di forza da esaltare, o anche fingere. Cercheremmo di vestirci meglio del solito, nascondere l’agitazione e, come queste, tante altre accortezze per dare un’immagine di noi migliore possibile, anche se non del tutto vera. Ecco, non è difficile capire quanta attenzione possiamo prestare alla nostra immagine quando carichiamo un contenuto che, oltre a resistere al tempo che passa, può essere potenzialmente visionato da una platea composta da miliardi di utenti.
- Il collasso dei contesti sociali: nei social media, i confini sociali sono sfumati, perché sfera pubblica e sfera privata non sono più nettamente separate. Pensiamo ai colleghi di lavoro che accedono a contenuti relativi alla vita intima o familiare. Questo ha determinato il collasso dei contesti sociali in rete, ma anche la scoperta delle nuove potenzialità degli strumenti digitali: in un’ottica di Personal Branding, gli utenti possono proporre nei propri profili social contenuti pensati per dimostrare le loro abilità e competenze, ricercando così la possibilità di ottenere opportunità lavorative, stringendo non solo legami di amicizia, ma anche professionali. Insomma, diremmo che i social network sono i moderni biglietti da visita, e voi scrivereste mai, sul vostro biglietto da visita, che ultimamente vi sentite frustrati o che siete in crisi con vostra moglie?
I social network non possono, dunque, equipararsi alla realtà, è chiaro. Sono piuttosto un filtro sulla realtà, che, in quanto tale, lascia passare determinati elementi, scartandone altri, come le vulnerabilità, le tristezze, le paure, le verità. Il problema è che questi materiali di scarto non sono affatto da buttare: abbiamo bisogno di ostentare questi sui social, affinché nelle fragilità altrui possiamo riconoscere le nostre, e così, sentirci tra noi capiti. Questo, è ciò che davvero ci farebbe sentire accettati come parte di un tutto, un tutto in cui tutti riconoscono di vivere nella pelle di un essere umano. Ma forse queste sono solo le parole degli inguaribili sognatori.
Simona Settembrini
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