Scuotere il tempo, senza nessun tempo
Sono seduta nel banchetto della scuola.
Fuori fa freddo, la il sole tenue illumina l’erba delle aiuole scomposte, là, lontano da me che sto in aula e ascolto e rifletto.
Oggi insieme proveremo a fare una lezione di letteratura a distanza, sedetevi nel vostro banco, carta, penna e orecchie aperte. Leggiamo:
A se stesso
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanitá del tutto.
In uno dei periodi più bui della sua vita, Giacomo Leopardi, che di buio ne aveva già conosciuto abbastanza, scrive una delle liriche più struggenti mai scritte: A se stesso.
Aspasia, nobildonna fiorentina che dell’amore del povero poeta non ne volle sapere, Aspasia, tale Fanny Targioni Tozzetti che col suo rifiuto rese Giacomo ancora più volubile, proprio a lei è dedicato l’ultimo ciclo recanatese: Il ciclo di Aspasia.
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Ora sei libero di appoggiarti, da ora e per sempre, mio cuore stanco. Stanco di amare, stanco di sentire e di non essere sentito. Morì quel sentimento d’amore, già in un remoto passato, anche se io lo considerai eterno. Esso morì, adesso lo capisco, lo accolgo dentro come quello che è: null’altro che un tranello, stoltamente architettato dall’uomo che per speranza si abbandona all’illusione di amare ed essere amato. Si è frantumato tutto, ogni cosa, non ho più nemmeno il desidero di sentire e questo perché ho troppo amato e troppo sono morto.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra.
Ti concedo di riposarti eternamente, perché il tuo costante affanno, il tuo perenne affanno è stato già abbastanza e nulla vale il tuo smuoverti, sbatterti e dilaniarti. Nemmeno la terra, tutto ciò che è qui, a portata di occhio, non è degno solo per il semplice fatto di esistere e posare sul suolo, per il fatto di essere un prodotto dell’uomo, che in sé, alla fine dei conti, è mortale, decadente.
Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire.
Ma sei noi siamo nati per morire, se il fato ci ha imposto di nascere, provare sensazioni stupende e poi orribili e poi ancora stupende, per poi lasciarmi marcire nelle tenebre del nulla, allora perché ci ha poggiato qui? Mi sento preso in giro, mi sento sfruttato e non so come uscire fuori da tutto ciò, sento che la vita amara, noiosa, fangosa mi è stata imposta e quindi io decido, prima che il fato stesso me la porti via, di disperarmi per l’ultima volta e poi lasciarmi andare. Alla natura ritorno, dalla natura vengo.
Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanitá del tutto.
Per l’ultima volta, io ti concedo la disperazione essendo consapevole, però, che all’uomo quel fato non ha fatto altro che dare l’incombenza della vita e la sicurezza della morte, attraversata da un unico sentimento che per molti è addirittura peggio dell’ultimo sospiro: l’amore, senza il quale, però, quel tratto dal primo vagito all’ultimo sospiro sarebbe ancora più inutile e vano.
Così, leggendo con una voce strozzata le parole lapidarie che Giacomo Leopardi dedica a se stesso, all’amore perduto e al dolore ingoiato, ci immergiamo con empatia nella vita di un uomo.Non semplicemente un poeta, ma un essere umano sproporzionato in tutto: troppo intelligente, troppo malato, troppo brutto, troppo bisognoso e in quel troppo noi ci perdiamo e attingiamo. Se oggi fossimo in un’aula, di questa stupenda opera analizzeremmo metrica, stile, figure retoriche e contesto, ma visto che la nostra aula è mentale e il tempo per la metrica è relativo, chiediamoci: abbiamo tutti in noi stessi un pezzo dedicato a noi stessi? Un vuoto cosmico che deve essere colmato o ci logora da dentro e ci porta alla morte. Leopardi parla di sé come parla di tutti e non perché desideri farlo, piuttosto perché è costretto a farlo, è umano, fragile e tangibile, proprio come te nel banchetto ora, che ascolti e pensi e ti scuoti l’animo con parole scritte secoli fa.
La grandezza della poesia, la potenza della parola, dopotutto, non è proprio questa?
Scuotere il tempo, senza nessun tempo.
NDR: le parti inserite dopo i versi sono una libera spiegazione dell’autrice, non si tratta di una parafrasi, ma di un commento con base filologica.
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Benedetta De Nicola