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Perché l’aborto è un diritto umano?

In un periodo storico in cui l’aborto continua a posizionarsi (ingiustamente) al centro delle discussioni politiche universali, è bene ricordare perché non dovrebbe essere così e perché è possibile definirlo un diritto umano che dovrebbe essere innegabile.

Negare l’aborto legale e sicuro è un atto di estrema violenza nei confronti delle donne, dato che comporta la violazione di diritti fondamentali: la salute, la dignità, la libertà di scelta, l’uguaglianza e l’autonomia.

Ogni situazione è diversa e soggettiva.
Ogni persona può avere ragioni diverse e personalissime per decidere di interrompere una gravidanza (ad esempio considerazioni emotivo-psicologiche, problemi di salute o economici).
Ogni donna ha il diritto di scegliere in base alla complessità della propria circostanza individuale e alle proprie condizioni di vita.

La CEDAW e la Dichiarazione universale dei diritti umani sostengono l’uguaglianza di genere e il diritto delle donne all’autodeterminazione; non menzionano esplicitamente il diritto all’aborto ma esso chiaramente può e deve essere interpretato come parte del diritto all’autonomia e alla salute.

A dirlo esplicitamente però è l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che sottolinea come l’accesso all’aborto sicuro sia fondamentale per la salute fisica e mentale delle donne. Infatti, in luoghi dove l’accesso all’aborto è illegale o fortemente limitato, le donne sono costrette a ricorrere a metodi estremamente pericolosi e clandestini, rischiando conseguenze permanenti e talvolta anche la morte.

La storia di Amber Nicole Thurman

La storia di questa giovane donna è il simbolo perfetto delle atroci conseguenze che le politiche negazioniste sull’aborto possono avere.

Amber Thurman era una donna di 28 anni, nata e cresciuta in Georgia (USA). Era mamma di un bimbo piccolo e lavorava in campo medico come assistente.
Nel 2022 Amber ha scoperto di essere incinta e ha deciso di voler terminare la gravidanza. Quando l’ha scoperto erano già passate più di sei settimane e a questo punto già una strada sicura le era stata negata: in Georgia non si poteva accedere all’aborto dopo le sei settimane. Costretta ad andare altrove (consideriamo quindi spese di viaggio, vitto e alloggio), Amber è andata in North Carolina dove l’aborto era legale ed ha ricevuto un aborto chimico con l’uso di mifepristone e misoprostolo. Sembrava che la procedura stesse andando correttamente finché Amber non ha riscontrato una complicazione alquanto rara, ossia l’espulsione incompleta di tessuto fetale, che ha causato lo sviluppo di un’infezione gravissima.

Il 19 agosto 2022 i sintomi di Amber si sono intensificati e si è recata all’ospedale Piedmont Henry a Stockbridge, Georgia. Tutti i valori indicavano una grave infezione: pressione sanguigna bassissima e globuli bianchi altissimi. La procedura da seguire secondo gli standard medici sarebbe stata quella del D&C (dilation and curettage) per rimuovere il tessuto rimanente, ma ricordiamo che la nuova legge sull’aborto della Georgia criminalizzava sia l’aborto chimico che quello chirurgico dopo le sei settimane, anche in situazioni di vita o di morte, senza alcuna eccezione.
QUI per conoscere l’intera storia delle leggi sull’aborto in Georgia.

La procedura alla fine è stata eseguita. VENTI ORE DOPO. Intanto le condizioni di Amber erano peggiorate ed è morta di shock settico causato dall’infezione proveniente dal tessuto fetale non espulso.

I medici avevano il potere e tutti gli strumenti per evitare la morte di Amber Thurman, ma erano troppo spaventati dal rischio di finire in carcere per dieci anni dopo che l’aborto oltre le sei settimane è diventato REATO nello Stato della Georgia. Quindi hanno aspettato che la situazione diventasse critica (nonostante al suo arrivo Amber già vomitasse sangue) prima di operarla, somministrandole nel mentre antibiotici e farmaci (come il Levophed) che non hanno fatto nulla se non contribuire al peggioramento delle sue condizioni. Quando hanno iniziato ad operare era, ovviamente, già troppo tardi.

Ogni tipo di procedura medica ha dei rischi e la possibilità di complicazioni ed è compito e dovere dei medici intervenire quando è necessario. Rendere tale dovere illegale è una crudele violenza sia nei confronti dei pazienti che dei medici stessi.
Se Amber avesse avuto la possibilità di restare in North Carolina, la clinica avrebbe immediatamente eseguito una D&C gratuitamente in seguito alle complicazioni sviluppate. Ma per motivi lavorativi Amber è tornata a casa, in Georgia, in uno Stato che invece l’ha lasciata morire.

Il diritto all’aborto è un diritto umano. È impensabile che in alcuni paesi l’accesso all’aborto venga negato e/o ostacolato. È inaccettabile che le persone muoiano nel tentativo di ricevere delle cure, così come è eticamente e professionalmente sbagliato il rifiuto di alcuni ginecologi circa le procedure di aborto.

Il diritto all’aborto non può e non deve più dipendere dallo Stato, dagli obiettori di coscienza, da psicologi incompetenti o da movimenti come ProVita. 

Il diritto all’aborto appartiene soltanto alla donna.

Nei consultori e negli ospedali non dev’esserci giudizio, cattiveria, tentativi di convinzione. C’è bisogno di delicatezza, di empatia, di comprensione, di umanità.

QUI per INFO essenziali.

Nonostante l’IVG (interruzione volontaria di gravidanza) sia legale in Italia e regolamentata dalla legge 194 del 22 maggio 1978, il percorso purtroppo resta difficoltoso e pieno di ostacoli, con l’80% di antiabortisti nel personale sanitario di ogni reparto di Ginecologia e Ostetricia negli ospedali italiani.

Concludo con una citazione della giornalista Marika Ikonomu:

La legge del 1978 non garantisce dunque a pieno il diritto all’ivg per tutte le donne, che in almeno il 20 per cento dei casi sono costrette a migrare in un’altra provincia o regione in cerca di personale non obiettore. Per questo, diversi movimenti a tutela dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne chiedono una revisione della 194, affinché le destre non sfruttino le falle della legge per impedire di fatto il diritto, che rischia inoltre di essere messo ancor più in discussione dall’autonomia differenziata, che alimenterà il divario regionale

Alziamo sempre la voce, se non ci ascoltano. Gridiamo più forte se loro urlano. Non ci zittiranno mai.

Marcella Cacciapuoti

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Marcella Cacciapuoti

Classe 2001. Laureata in lettere moderne e studentessa di filologia moderna. Scrivo, leggo, e sogno un dottorato in linguistica. Mi chiamo Marcella e sono in continua evoluzione. Innamorata delle parole e affamata di pace. Racconto le storie degli altri per trovare la mia.
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