Van Gogh: Sulla soglia dell’eternità. Raccontare attraverso le immagini
di Luisa Ruggiero
Intenso, estatico e viscerale, un film che racconta di più nelle pause, nei silenzi e nell’atto contemplativo della pittura che durante i dialoghi. Ho deciso di raccontarlo in un viaggio a ritroso attraverso i tre fermo immagine del film che mi hanno più colpito.
[…] Devo parlare dei colori? Vi si vedono un turchino intenso, inverosimile, che ritorna di continuo, un verde di smeraldo fuso, un giallo che dà sull’arancione. Ma che cosa sono i colori, se non rivelano la vita intima degli oggetti? Questa vita era lì: l’albero, la pietra, il muro, il sentiero incassato davano ciò che avevano di più segreto, lo gettavano per così dire verso di me. Ma non mi comunicavano la voluttà e l’armonia della loro perfetta vita silente. Non vi era lì nulla dell’incanto che avevo provato altre volte davanti a qualche quadro antico: no, ero assalito soltanto dal miracolo incredibile della loro possente e violenta esistenza[…]
- von hotmannsthal, lettera del 26 maggio 1901
(in Aus den Briefen des Zurùcfigekehrten. Die Furbe, Berlino 1917)
Inquadrature intense, disordinate, scomposte, giochi di luce che sembrano errori di telecamera, sfocatura nella parte bassa dello schermo, tanta musica talvolta in sostituzione ai dialoghi, pochi ed essenziali, fermo immagine, scene buie e talvolta mute, ripetizioni di parole e scene, è questo il Vincent Van Gogh di Julian Schnabel, egli stesso un pittore, è forse per questo che arriva a descrivere così mirabilmente l’intenso spaccato degli ultimi due anni di vita del pittore olandese.
Sembra che lo stesso Van Gogh abbia diretto il film, abbia scelto le musiche ed abbia accostato i colori proprio come usava fare sulla sua tavolozza. Le inquadrature irregolari, i silenzi, i picchi di luce e il buio denso sono le emozioni del pittore proiettate sul grande schermo, che di riflesso, con un balzo brusco e scomposto arrivano nella nostra anima.
Nel caleidoscopico mondo del genio in cui ci ha proiettati il regista, il “sentire” diventa il “sentire” alla maniera di Van Gogh, tutta quell’esistenza, tutta quella bellezza tragica ed intensa al tempo stesso raccontata attraverso le opere di potenza violenta, disarmante.
“Io sono i miei quadri”
Dopo il brusco impatto con il rigido inverno del suo arrivo ad Arles nel 1888, le prime immagini sono quelle di un uomo totalmente immerso nella natura, nel colore abbagliante del sole appena sorto fino al calore luminoso di quello al tramonto delle prime luci dell’alba o in quelle Il pittore è finalmente immerso nella luce, nel calore della sua fervente passione per la pittura che si tramuta poi in dedizione completa e passionale verso l’arte.
Quanto le ombre dei malesseri dell’uomo, prima che del pittore raccontavano della luce che al suo interno ardeva e bruciava e si consumava come febbrile desiderio e primordiale istinto di comunicare, di comunicare un modo per guardare il mondo così autentico, magico e viscerale di Vincent Van Gogh.
Oltre all’irrequietezza tipica di Vincent Van Gogh sentiamo forte, specialmente in questa scena, il senso di consapevolezza da parte del personaggio della sua urgenza di comunicare le sue profonde passioni, del suo posto nel mondo, la follia controllata del gesto del tagliarsi l’orecchio non è l’estremo atto di pazzia ma un’affermazione controllata di se stesso, della sua arte e del suo amore per l’amico che lo aveva abbandonato; una comprensione, una confessione, ma anche un’esorcizzazione del dolore attuata attraverso quell’estremo gesto, poi spiegato e raccontato al dottore, personaggio secondario ma pregnante nella narrazione, poiché sembra quasi essere una sorta di alter ego dell’artista con il quale si confronta in un dialogo di una sincerità e intimità disarmanti.
– Perché dipingete?
– Dipingo… in realtà per smettere di pensare.
– È una specie di meditazione…
– Quando dipingo smetto di pensare.
– Pensare a cosa?
– Smetto di pensare e sento… di essere parte di qualsiasi cosa fuori e dentro di me. Volevo… così fortemente condividere ciò che vedo. Un artista…
– Sì
– Pensavo che un artista… dovesse insegnare come guardare il mondo, ma ora non lo penso più. Ora penso solo al mio rapporto con l’eternità.
– Cos’è per voi l’eternità?
– Il tempo a venire.
– Forse volete dire che il vostro dono al mondo è la vostra pittura.
– Altrimenti… a che serve un artista?
– Siete felice quando dipingete.
– Quasi sempre, salvo quando non ci riesco.
– A volte sembrate così triste.
– Sapete, un dipinto riuscito porta con sé un bagaglio di distruzione e fallimento. Trovo gioia nel dolore. Il dolore è più potente della risata. Sapete… un angelo non è così distante dagli afflitti. E la malattia… a volte ci può guarire. È il normale stato d’animo da cui ha origine un dipinto.
– È il vostro stato d’animo?
– A volte temo di ritrovare la mia salute.
– In tal caso non vi occorre un dottore!
Il film è quasi terminato, Van Gogh, trasferitosi da Arles ad Auvers-sur-Oise, discorre sereno con il dottor Paul Gachet, il medico che lo aveva in cura (che fu, tra l’altro, appassionato collezionista d’arte).
Il pittore realizzerà almeno due ritratti dell’uomo, uno dei quali è quello che è appartenuto alla famiglia del dottore, che venne consegnato dai figli allo Stato francese nel 1949, per il museo dello Jeu de Paume: fu qui esposto fino al 1986, anno in cui l’opera entrò a far parte della raccolta del Musée d’Orsay, dove è tutt’ora conservato, l’altro che doveva essere l’originale è appartenuto ad un’altra collezione privata e lo è tutt’ora.
Quello che colpisce il pittore è “l’espressione meditativa” del dottore, atta ad incarnare “l’espressione sconsolata dei nostri tempi”, come racconterà in seguito alla sorella Willemien in una lettera inviatale nel 1890. L’artista appare malinconico ma al contempo fiero e sereno, la gamma cromatica si riempie di colori freddi, la presenza del fiore sul tavolo non attenua l’atmosfera, il discorso è pacato sebbene la conversazione prenda una piega tutt’altro che leggera.
I dialoghi a tratti morbosamente didascalici hanno, a mio parere, un po’ minato l’intensa drammaticità che fortunatamente è stata preservata dalle riprese audaci, dalla narrazione incalzante, dai tagli fotografici di Benoit Delhommeche hanno reso l’eterea bellezza dello sconfinato che tanto impressionava e seduceva il pittore.
Consistente è stata anche la presenza delle composizioni musicali inquiete ed impetuose di Tatiana Lisovskayae pregnante è stata l’interpretazione magistrale di un Defoe che ha incarnato più che interpretato un artista così complesso come Vincent Van Gogh, attingendo dalla sua pittura e dalla sua scrittura, imparando egli stesso a dipingere, incanalando le proprie emozioni nell’arte sia pittorica che cinematografica.
Più di tutto forse ho amato questo film perché ha restituito con certosina perizia e imperituro vigore l’immagine crepuscolare di un Van Gogh in tutte le sue più imbarazzanti paure, in tutta la sua fragilità ed in tutta la sua potenza creativa che si sono tradotte in attimi di vita intensa i quali a loro volta hanno dato vita a quadri di una potenza straordinaria, quella potenza straordinaria che restituisce quel barlume di eternità che Van Gogh aveva già compreso sarebbe derivato dalle sue mani.