Dal cuore alla penna: le lettere degli amanti nella Letteratura italiana
In un tempo in cui le parole d’amore non volavano rapide sulle ali del digitale, ma si annodavano, come ricami, sulle bianche pagine degli scrittoi, le lettere divenivano ponti di carta tra cuori distanti, tessendo storie intime e mantenendo vivo, ben oltre i limiti del tempo, il misterioso legame tra due anime.
D’altronde si sa, una bellezza antica e segreta, quasi sacra, caratterizza il momento in cui l’innamorato, sospinto da una forza incomprensibile, decide di tradurre in parole l’intensità di un sentimento che non sa spiegare e che, gioia e dolore, scuote la sua esistenza.
Ed è proprio in quelle parole – sussurrate, talvolta gridate, infiammate di passione o avvelenate di gelosia, ma anche dolorose di rinuncia e di abbandono – che riscopriamo, sotto una nuova luce, le donne e gli uomini protagonisti della nostra Letteratura e che mai avremmo pensato di cogliere nella loro “arte di essere fragili”. Di fatto, scrivere una lettera d’amore, significa offrire all’altro un pezzo di sé stessi che mai più ci verrà restituito; potrà spegnersi il sentimento certo, ma quello che avremmo scritto per la persona che abbiamo amato resterà “immanente” e il nostro minuscolo frammento, la nostra “molecola”, sopravvivrà alla nostra volontà e sarà l’exegi monumentum del nostro cuore. Perché, se dovesse esistere davvero una qualche forma di immortalità, probabilmente essa sarebbe possibile soltanto in funzione dell’amore, di quello stesso amore che spesso, presi dallo sconforto, vorremmo non essere mai nato. E se l’amore non è mai uguale e definibile, in quanto sa essere passione impudica, ma anche lieve carezza, può guardarsi e capirsi, ridere ed infiammarsi, ma anche soffrire in commiato, ecco le lettere degli amanti più significative e profonde della Letteratura italiana.
Veronica Franco (1546 – 1591)
Veneziana di origine e di cultura, Veronica Franco fu una vera e propria femme fatale della sua epoca; cortigiana e poetessa in un periodo in cui l’esercizio della grande poesia restava riservato ai soli uomini, era solita, infatti, intrattenersi con individui di alto rango in cambio di favori e servigi. Contrariamente ai costumi dell’Italia rinascimentale, inoltre, ella fu consigliera fidata dei propri amanti, una donna con cui, discorrendo di politica e di filosofia, si poteva avere un confronto intellettuale, ancor prima che carnale. La Franco è, insomma, una profonda conoscitrice dell’animo umano, una donna che seduce con la dialettica e con il pensiero, più che con l’avvenenza, e che genera, negli interlocutori, quasi una necessità di confronto; ciò si evince facilmente dalle sue missive, strumento indispensabile, ora come in moltissimi altri casi, nel ricostruire il profilo psicologico di chi le ha scritte;
«Dalle parole che usate meco ragionando l’altra sera m’accorsi d’un animo in voi turbato e mal composto per gli accidenti della vostra contraria fortuna […] E perché, in occasione che anco io, […] sono stata assai travagliata, v’ho trovato prontissimo a consolarmi con le vostre efficaci ragioni […] non debbo mancar di far con voi questo medesimo officio.»
Vincenzo Monti (1754 – 1828)
Vincenzo Monti fu, come sappiamo, esponente di spicco del Neoclassicismo italiano, sebbene la sua produzione abbia conosciuto stili mutevoli e sia stata addirittura accostata alla nuova sensibilità romantica. Colpisce, in questo caso, il ricco epistolario di Monti, capace di restituire al lettore un’interessantissima ambivalenza nell’ars amandi dello scrittore: tiepido e affettuoso nei confronti della moglie Teresa, le sue lettere sembrano però, per quanto dolci e ricche di apprensione, prive di passione e trasporto sentimentali, elementi che, invece, ritroviamo evidenti nelle missive indirizzate a Madame de Staël. La baronessa e scrittrice francese, durante un suo breve soggiorno in Italia, suscitò infatti l’ammirazione di moltissimi intellettuali dell’epoca, tra cui lo stesso Monti e, sebbene non vi siano indizi che lascino pensare ad una possibile relazione tra i due, in questa epistola, scritta all’indomani della partenza della baronessa, si nota subito un trasporto emotivo molto forte da parte dell’autore, un trasporto che, in realtà, è tipico dell’innamorato:
Alla Baronessa Staël-Holstein – Bologna.
Vincenzo Monti
Milano, 16 gennaio 1805.
«Conto le ore, conto i momenti dacchè siete partita, ed ecco trascorsi due soli giorni del lungo spettare che mi rimane per rivedervi. Separato da voi, parmi che il tempo abbia perdute le ali, e nondimeno il core ha trovato in qualche modo la via d’ingannare la lunghezza di questa amara separazione. […] Quando son solo, chiamo in rivista tutti i dolci momenti che ho passati con voi sì deliziosi, sì rapidi, e mi accuso di non avervi seguita fino a Bologna, e sento di essermi fatto infelice per volere ascoltare i consigli della ragione, di questa noiosa pedante che avvelena tutti i piaceri di questa vita. […] Mi avete comandato, partendo, di non dimenticare le nuove di mia salute. Che posso dirvi? Avete inteso il nuovo tenore della mia vita. Tutto il resto è tristezza e profonda malinconia. Non esco di casa che per cercare con chi far parole di Voi, né torno a casa che per chiudermi tutto solo nella mia stanza, e inviarvi dietro i pensieri turbati dalla paura che le distrazioni del viaggiare e nuove impressioni mi escludano dal vostro cuore.»
Giacomo Leopardi (1798 – 1837)
Certamente molto dibattuto, nel corso dei decenni, fu il rapporto che legò Giacomo Leopardi al napoletano Antonio Ranieri. Se non fu vera e propria passione, essa fu la somma di due fragilità; da una parte un genio trentenne che, assettato di affetti e riconoscimenti, riesce a fuggire dal carcere familiare di Recanati, ma non riesce a trovare un’occupazione stabile con cui sostentarsi; dall’altra uno squattrinato ventiquattrenne, biondo, aitante, piacione e vanitoso, oltre che gran donnaiolo. E quando Giacomo si dispera all’idea di dover tornare a Recanati per mancanza di denaro, è proprio Antonio ad offrirgli aiuto e solidarietà, pur essendo precario quanto lui. Ne nascerà una profonda amicizia che durerà per tutta la vita, un legame sincero e atipico che, lanciandosi ben oltre qualsiasi definizione moderna di amore e di romanticismo, scavalca il tempo e costruisce il romanzo intimo di due anime, tanto diverse quanto affini. Era il 2 ottobre del 1832 quando Leopardi, debilitato e sfiduciato, scrive ad un Ranieri che soffre, ancora una volta, a causa di un’illusione d’amore:
«Anima mia. Scrivo dal letto e perciò breve. Sono assai debole, ma mi sento molto meglio. Ti ho una compassione immensa che non mi lascia pace. Povero Ranieri mio, ti stringo al core senza fine. Vorrei dieci volte soffrir io quello che tu soffri, in luogo tuo. Ti rendo un milione di baci.»
Grazia Deledda (1871 – 1936)
Una delicatezza estrema e quasi commuovente, poi, caratterizza le lettere che la poetessa Grazia Deledda, donna fragilmente forte, dedica all’amato, il critico letterario Stanislao Manca. Un amore profondo il suo e che, sebbene condannato all’impossibilità tipica della grande tragedia, è possibile ricostruire nelle sue molteplici fasi: illusione, innamoramento, lusinghe e disillusione compongono lo sfaccettato volto di un sentimento che sembra, ancora oggi e ben oltre la morte, non essersi spento. Emblematico, in questo senso, il grido di una donna che, nonostante la consapevolezza di non essere ricambiata, sceglie di ammettere comunque il suo sentimento e di dichiarare tutto il suo amore, anche al costo di restarne ferita; le lettere, in questo caso, diventano l’oggetto di una richiesta precisa, di un estremo atto di galanteria, ovvero la restituzione delle missive. Di fatto, è come se la poetessa desiderasse ricongiungersi con quel frammento della propria anima che, ingenua, aveva maldestramente donato a chi non la meritava affatto:
Grazia Deledda
a Stanislao Manca
Nuoro, 24 febbraio 1894
«Mio caro Stanis,
No, non mi avete punto offeso, ve lo assicuro. Sento solo che oggi si chiude un periodo importante della mia vita, e che si chiude per sempre. […] Subito impostata la mia ultima io mi pentii amaramente di avervela scritta, presentendo anzi una risposta più terribile. Ma il fatto è fatto. Non so perché mi sono così amaramente ingannata nel rileggere le vostre lettere; eppure, o Stanis, se voi ricordate le frasi, certe frasi e certi periodi, scritti dopo di avermi conosciuta! Vuol dire che anch’io sono una ragazza ingenua come le altre, che si lascia affascinare da qualche frase banale di giovinotto elegante e, vedete, ne resto quasi contenta. Vuol dire che non sono così vecchia come mi credo e che può esserci ancora per me della felicità. Ah, non può esserci l’amore dell’anima? Eppure io non vi ho amato per la vostra gigantesca persona! Vi ho amato così, come certo nessun’altra donna vi amerà, per una strana malìa dello spirito. […] Vi ho amato perché tutte dicono che siete antipatico e brutto. Anche a me la vostra persona fece una stranissima impressione, avvezza qual sono ai giovani brutti e sottili – eppure ho continuato ad amarvi, come in un sogno bizzarro e misterioso. Sì, esiste l’amore dell’anima, – esiste, esiste! Ma non eravamo nati per comprenderci. Voi siete un decadente, io una visionaria. Voi potete trovar subito il vostro ideale, io forse non lo troverò giammai. […] Ma se volete essermi veramente amico potremmo esserlo lo stesso. […] Restituitemi le mie strane lettere. […] Non cambiate il mio amore in disprezzo: […] chissà che in avvenire io non vi possa essere utile?…»
Gabriele D’Annunzio (1863 – 1938)
Lei una celebrità, lui un poeta di talento. Trentasei anni lei, trentuno lui. Quando Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio si incontrano per la prima volta presso l’Hotel Danieli di Venezia nel 1894, complice anche la comune amica Matilde Serao, sapevano che la loro storia d’amore non sarebbe stata facile. Entrambi artisti, l’attrice incline a intrecciare relazioni sfortunate, lo scrittore a collezionare amanti in giro per il mondo, hanno inciso nero su bianco sentimenti, schermaglie, gelosie, devozione e crudeltà in nove lunghi anni di lettere, molte delle quali distrutte per volontà della stessa Duse. Eppure, nonostante i suoi innumerevoli amori, il cuore del poeta restò per sempre devoto alla sua Ghisola, così come dimostrano le accorate parole che le dedica in questa lettera sopravvissuta:
«Ghisola
Tu sei, e sarai sempre il mio incantesimo solare e hai fatto sboccare nella mia anima fiumi di poesia. Ma io sono un uomo di disordine, e voglio rimanere tale perché il mio stile è di non contrariare mai la mia natura. Io ho scritto per te un grande romanzo che traspone in allegoria il mio amore per te, dove eterno i nostri strazi di amanti innamorati, eppure mi tormenti con la tua gelosia piccina.»
La stessa Duse risponderà con una delle sue intense lettere, forse uno dei suoi più inestimabili lasciti ad un amore che, nonostante tutte le sofferenze e i contrasti, ha finito per segnarla per sempre:
«Gabri
Se mai tu potessi sapere che cosa sia stata la mia vita senza di te! Che cosa è il mio corpo che ti cerca! Gabriele, non importa se tu non m’ami più. Io ti amo. Ti amo come ho amato, come amo e come amerò per l’eternità, se l’eternità esiste. […] In me non v’è che il tuo nome, la tua voce, il tuo volto. Tu sei il mio tutto. […]»
Giunti al termine di questo straordinario viaggio, non ci resta che ammettere la sua non-conclusione: nel mondo, infatti, sono esistiti, esistono ed esisteranno sempre gli amanti, e gli amanti, si sa, vivono di parole, siano esse scritte o semplicemente sussurrate. Perché in fondo, così come scriveva Ippolito Nievo, «l’Amore estende la sua influenza sopra tutte le facoltà dell’anima nostra» e, aggiungo, non ne possiamo fare a meno.
Antonio Palumbo
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