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Il Trasumanar del linguaggio: le inestimabili invenzioni linguistiche di Dante Alighieri

Nel vastissimo panorama della letteratura mondiale, si sa, Dante Alighieri ha sempre rappresentato una voce autorevole, forse addirittura la più alta e inarrivabile di tutte.

Le ragioni della sua grandezza, infatti, sono certamente da ricercarsi nell’universalità del suo messaggio poetico, ma anche (e forse soprattutto) nella sua straordinaria capacità di decodificare e raccontare ciò che da sempre fu più misterioso e incomprensibile, ovvero le passioni e i sentimenti più reconditi dell’animo umano.

E se le parole comuni non fossero bastate, allora il poeta, fine alchimista del linguaggio, di divine ne avrebbe inventate, forgiando una poesia capace di vincere il tempo e di abbattere qualsiasi distanza.

Correva l’anno 1477 quando, a Venezia, fu pubblicato un piccolo opuscoletto di Giovanni Boccaccio, un’opera passata certamente in sordina tra i tanti scritti dell’autore del Decameron, ma che costituisce, ancora oggi, il primo brillante risultato di quella che sarebbe poi divenuta la critica dantesca, ovvero il Trattatello in laude di Dante. Apparso addirittura più di un secolo dopo la morte del suo autore, il breve saggio, forse inconsapevolmente, pone una serie di questioni che diverranno fondamentali nei secoli successivi e che affrontano la struttura, il significato e, soprattutto, la natura stessa del poema dantesco. Era la prima volta che quella che Dante aveva semplicemente chiamato “Comedìa”, recava il titolo moderno di “Divina Commedia”.

L’opera, infatti, pur raccontando il lungo viaggio che conduce Dante alla suprema visione di Dio, non viene etichettata come “divina” a seguito del suo argomento, quanto piuttosto in virtù della sua straordinaria perfezione formale, una perfezione che sembra quasi non appartenere al mondo degli uomini e che, come direbbe lo stesso Dante, trasumana, valicando i limiti stessi della natura terrena. E come vessillo di questo supremo equilibrio, il linguaggio, in grado di dipingere persino la fugacità delle inafferrabili realtà celesti, diviene quasi una firma stilistica, un unico e irripetibile “marchio di fabbrica” della grande poesia dantesca.

D’altronde, si sa, gli stessi latini credevano che potesse esistere una forte connessione tra il destino dell’uomo, peraltro già scritto, e il suo nome: Nomen Omen, dicevano. E forse, nel nome di Dante era possibile già cogliere i segni di una gloria che, a discapito di un’errante vita da esiliato, avrebbe sovrastato i secoli e dominato la storia: Dante, da “dans-dantis”, participio presente latino del verbo dare, “colui che dà”; Alighieri, composto da “ala-ae” (ala)e “gero” (portare); letteralmente Dante Alighieri, “colui che dà, portatore di ali”.

Non è un caso, infatti, che il poeta fiorentino di parole ce ne abbia date tante, molte delle quali in uso ancora oggi, come fertile, latinismo derivante dal verbo ferre e che Dante, descrivendo la costa lungo la quale nacque San Francesco, utilizza nel Canto XI del Paradiso, oppure come mesto, dal latino maestus, utilizzato dal poeta per descrivere la triste condizione dei dannati infernali, «color cui tu fai cotanto mesti» (Inf. Canto I, v. 135).

Eppure, sebbene l’idea che molti dei termini che utilizziamo ogni giorno possano derivare da Dante ci sconcerti, ciò che maggiormente ci colpisce sono i verbi che, composti a partire da nomi o aggettivi, riescono ad esprimere perfettamente alcuni dei punti più importanti del messaggio poetico dantesco.

Oltre al già citato trasumanare, ricordiamo infuturarsi, ovvero “essere proiettati verso il futuro”, indracarsi, “diventare feroce come un drago” e, soprattutto, intuarsi, letteralmente “immergersi completamente nella mente e nel cuore dell’altro”; spiazzante e di rara bellezza risuona il verso «s’io m’intuassi come tu t‘inmii» (Par. Canto IX, v. 81) in cui, così come intuito da Vittorio Gallese, possiamo scorgere una splendida e attualissima definizione del sentimento dell’empatia.

Comunissime, infine, le espressioni idiomatiche di matrice dantesca che, dal valore quasi proverbiale, arricchiscono ogni giorno la nostra comunicazione informale: è il caso di “non mi tange”, parole che Beatrice, spiegando di non temere il regno di Lucifero in quanto creatura di Dio, rivolge a Virgilio nel Canto II dell’Inferno, oppure “stai fresco” che,utilizzata per indicare qualcosa che andrà a finire male, deriverebbe dal verso «là dove i peccatori stanno freschi» (Inf. Canto XXXII, v. 117) e farebbe riferimento, nello specifico, al nono cerchio dell’Inferno, in cui i traditori sono condannati ad essere immersi per l’eternità nel lago ghiacciato del Cocito, perennemente martoriati dalle gelide raffiche di vento prodotte dalle ali di Lucifero.

Insomma, la verità è che Dante, volendo usare ancora uno dei vocaboli da lui coniati, è riuscito ad insemprarsi come nessun’altro prima e dopo di lui, instillandosi sottopelle in ognuno di noi. E anche quando, schiavi di un mondo spasmodicamente infuturato, considereremo lontano e superfluo tutto questo, Dante sarà sempre lì, nascosto tra le parole, pronto a ricordarci che la vera grandezza, spesso, è dentro di noi.

Antonio Palumbo

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Photo credits https://www.espressonapoletano.it

Antonio Palumbo

Antonio Palumbo, classe 1999, è dottore in Lettere Moderne e attualmente completa la propria formazione con una magistrale in Filologia Moderna presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II". Insegna Lingua e Letteratura Italiana in un istituto scolastico privato e, appassionato di lettura e di scrittura, dedica il suo tempo libero anche alla fotografia naturalistica e al collezionismo di libri e di monete antiche. Insegue il sogno di visitare il mondo e di scoprire tutto il fascino e la complessità delle diverse culture umane.
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