I cani di Freud
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Gli animali imperversano nel “bestiario” psicanalitico e Freud, il padre della psicanalisi, era un’amante devoto dei cani.
Sarebbe dunque un errore separare l’affetto che provava per i suoi amici a quattro zampe dalla sua teoria e dalla sua pratica clinica.
Gli sguardi più curiosi avranno notato che le opere di Sigmund Freud sono costellate di cani, sia propri che altrui, che abbondano nelle lettere, nel diario, negli scritti teorici, nelle riflessioni sui pazienti, nelle fotografie e nei video di famiglia. Il suo primo cane fu Lun Yu, un Chow-chow ricevuto nel 1928 che, disgraziatamente, sopravvisse solo poco più di anno a causa di un’incidente.
WOLF HA… MORSO IL MIO AMICO!
Anche sua figlia, Anna Freud, aveva un cane: Wolf, il pastore tedesco adottato nel 1925 per accompagnarla nelle sue passeggiate solitarie.
Sembra, curiosamente, che Freud fosse molto riluttante a impartire la disciplina ai propri cani: quando, nel 1927, Wolf morse un suo amico, Jones, in una lettera spiegò: «ho dovuto punirlo, ma l’ho fatto molto controvoglia perché in realtà Jones se lo meritava il morso!».
La riluttanza a punire i cani deriva dalla convinzione che essi non manifestassero alcuna ambivalenza nelle relazioni oggettuali: detto in parole povere, scodinzolano agli amici e mordono i nemici.
«I cani amano i loro amici e mordono i loro nemici, proprio al contrario degli esseri umani, che sono incapaci di amore puro e devono mescolare amore e odio nelle loro relazioni oggettuali».
Wolf, col tempo, divenne un “anziano gentiluomo” verso cui Freud provava un affetto paterno. L’attaccamento verso il cane mascherava il suo proiettare sui cani la libertà di scelta, l’assenza di complicazioni, di ambivalenze, di addomesticamento “umano” al sociale, motivo per cui non si impegnò mai in una vera e propria educazione cinofila. Wolf divenne dunque il suo “compagno di vecchiaia” con cui ritirarsi dalle complessità della vita adulta, ricreando quello che lui chiama il “legame pre-fobico” che condividono animali e bambini. Il vecchio pastore tedesco confortava Freud e lui, in cambio, lo viziava come un nipotino, al quale non avrebbe mai impartito alcun tipo di disciplina genitoriale.
Alcuni colleghi e amici di Freud sostenevano che il suo amore per i cani fosse in realtà una sublimazione del suo grande amore per i bambini, che non poteva più soddisfare a causa dell’età. Per lui, la perdita di un cane era qualitativamente simile alla perdita di un figlio, sebbene con intensità diversa. Ma, anche se reputava i cani «più piacevoli dei complicati adulti», essi non erano mai antropomorfizzati o considerati dei sostituti all’uomo.
Per Freud, la relazione con i cani sarebbe privilegiata perché priva di tutti i conflitti che derivano dalla cultura e dalle convenzioni sociali, e lo sappiamo bene: un cane non giudica, non è mosso da secondi fini, non è condizionato da norme sociali o da aspettative. Il suo amore è genuino, diretto, assoluto.
Questa purezza del legame si traduce in un’esperienza che Freud ha definito come “bellezza di un’esistenza completa in sé”. Pur riconoscendo le differenze biologiche, fisiche e comportamentali esistenti tra l’uomo e il cane, Freud ci ricorda l’affinità profonda e il legame solidale, quasi primordiale, che unisce l’uomo al cane. Il cane non è dunque solo un semplice “compagno di vita” ma uno specchio in cui vedere l’umanità autentica, quella non corrotta dalla vita quotidiana.
JOFI, L’OROLOGIO BIOLOGICO E LA STANZA D’ANALISI
Nel 1930 ricevette in dono da una sua paziente, la principessa Maria Bonaparte (nientedimeno che la pronipote di Napoleone!) un Chow-chow femmina di nome Jofi. Nel corso della vita di Freud sono molti i riferimenti a Jofi che compaiono nel diario, nelle lettere e nei ricordi di famiglia, come foto e video, e che toccano una grande varietà di problemi quotidiani – che chi ha un cane conosce bene!
La scelta del nome Jofi (che in ebraico significa “bene, va bene”) non è casuale, ma richiama il motivo inconscio della simpatia per il cane. Freud scrive in una sua lettera a Maria Bonaparte:
«Le ragioni per cui si può in effetti voler bene con tanta singolare intensità a un animale come Jofi, sono la simpatia aliena da qualsiasi ambivalenza, il senso di una vita semplice e libera dai conflitti difficilmente sopportabili con la civiltà, la bellezza di un’esistenza in sé compiuta. E, nonostante la diversità dello sviluppo organico, è un sentimento di intima parentela, di un’incontestabile affinità».
Freud tratta Jofi come una sua collega. Lo studio di Freud, il suo pensiero, la sua teoria e i suoi modi erano unici. Unici come la dedizione verso la piccola Jofi, tanto da non prendere considerazione l’idea di risparmiarla ai suoi pazienti: la presenza di Jofi era una delle costanti della seduta analitica.
Ci si può solo immaginare l’atmosfera durante le sedute con Freud: la stanza era impregnata dalla puzza di sigaro e di cane, e il tempo scandito dal ritmico ansimare da Jofi, presenza fissa ai piedi di Freud.
Il suo studio era già un museo a pieno titolo, uno spettacolo che non può però competere con un cane seduto per terra durante una seduta intento a leccarsi i genitali – immagine di cui Freud disse che era «proprio come la psicoanalisi».
Il cane era sempre nel mezzo del canale comunicativo tra Freud e suoi pazienti: non c’è niente di neutro nella presenza di un cane, presenza che può incuriosire o destabilizzare. Anche Jean Martin, figlio di Freud, raccontò che quando Jofi sbadigliava e si alzava nervosamente, era segno che il tempo della seduta era terminato. E così Freud non aveva bisogno neppure dell’orologio.
Freud scrive che Jofi era quasi indispensabile durante le sue sedute: quando i pazienti erano distesi sul lettino, lei si accucciata vicino a loro contenta di essere coccolata; ma, quando il paziente era troppo “nervoso” si spostava, sistemandosi ai piedi di Freud.
L’11 gennaio 1937 Jofi fu operata per l’asportazione di due cisti ovariche, ma morì improvvisamente per arresto cardiaco il 3 giorni dopo.
«Non ci si riprende così facilmente dopo sette anni di intimità», confessò Freud ad Arnold Zweig, amico e scrittore tedesco.
Il giorno seguente, Freud prese il Chow-chow Lün da Dorothy Burlingham, collega psicanalista americana. Non ci fu un lungo periodo di lutto, come dopo la perdita di Lun-Yu: a differenza di allora Freud, ormai anziano, sentiva di “non poter andare avanti senza un cane”. Lün contribuì a lenire il dolore di Freud dovuto alla perdita di Jofi. L’amore per la nuova cagnolina fu così forte che la portò in esilio con sé quando, nel 1939, scappò dai nazisti e dalle persecuzioni antiebraiche – anno però in cui Freud troverà la morte.
Freud si mostra anche in questo caso un grande anticipatore dei tempi, intuendo alcuni dei principi che avrebbero poi dato vita alla pet-therapy.
Elisabetta Carbone
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