Veio: splendore e caduta della verde Regina d’Etruria

Immerse nel cuore pulsante dell’Etruria, dove il verde, come un preziosissimo manto regale, silenziosamente avvolge la terra per cullarla, le rovine dell’antica Veio sembrano conservare ancora, nonostante gli evidenti colpi dei secoli, la primigenia scintilla di una grandezza perduta.
Definita come la più potente città del Tirreno da quegli stessi romani che, nel V secolo a.C., tentarono di spazzarla via dalla storia, Veio incantò il mondo con la bellezza dei suoi templi e la maestosità delle sue mura, simbolo perfetto di un potere che, indomito e fiero, levò un grido di sfida al tempo e alla sua eterna memoria.
Ma la gloria, si sa, è cosa assai fragile e, quasi come in un eterno ciclo, le civiltà si susseguono lungo la linea del tempo: colui che estingue, sarà estinto. Questa è la dura e inesorabile legge della storia. Veio, Regina d’Etruria, apprese con dolore questa tragica lezione, mentre le acque del fiume Cremera, che fino a quel momento avevano garantito la sua stessa sopravvivenza e che ora scorrevano tinte del colore del sangue, resero evidente il passaggio di testimone sul palcoscenico dell’umanità. In fondo non esiste giustizia se non nella memoria che, nel ricordo dei posteri, restituisce dignità agli sconfitti, consegnandoli al mito e inaugurando, in questo modo, la loro stessa immortalità.
Sorta non lontana dalla riva destra del Tevere, la città di Veio iniziò a configurarsi come un importante centro etrusco a partire dal IX secolo a.C., quando, in virtù della sua posizione geografica estremamente favorevole, divenne un nodo commerciale di fondamentale importanza, con rotte che si estendevano fino alla Grecia e all’estremo Oriente. È, tuttavia, a cavallo tra il VII e il VI secolo che possiamo collocare la sua fase di massimo splendore, un periodo in cui la florida economia della città, basata sull’agricoltura e l’allevamento, ma anche sulla lavorazione e il commercio di manufatti in ceramica e in bronzo estremamente raffinati, permise alla stessa Veio di costruirsi una rigida sfera d’influenza su quasi tutto il territorio dell’odierno Lazio. Ed ecco che, decennio dopo decennio, la città dotò sé stessa del volto tipico delle grandi città dell’antichità: possenti mura circondarono il suo perimetro e straordinari esempi di architettura religiosa, come il tempio di Portonaccio dedicato alla dea Minerva o le numerose necropoli destinate alla sepoltura di sacerdoti e alti consiglieri, abbellirono quella che, in tempi successivi, fu definita dallo storico Dionigi di Alicarnasso come una città che, al tempo di Romolo, era grande quanto Atene.
Oltre al celebre Apollo di Veio, capolavoro della scultura italica attribuito all’unico artista etrusco di cui conosciamo il nome, Vulca, meritano particolare attenzione anche la Tomba delle Anatre, tra le più antiche del sito, la Tomba dei Leoni Ruggenti, adornata da splendidi affreschi raffiguranti leoni feroci, la fortificata acropoli, che risulta essere una delle strutture più imponenti rimaste in città, e infine il cosiddetto Cunicolo Formellese, un tunnel scavato nella roccia con lo scopo di deviare le acque del Cremera e che testimonia l’avanzatissima perizia degli etruschi nel campo dell’ingegneria idraulica.

Ma Veio, come sappiamo, non fu certamente l’unica potenza a volersi ritagliare un proprio dominio in Italia; Roma, la nascente stella del panorama italico, presto rivendicò il controllo delle vie di comunicazione lungo il basso corso del Tevere e, soprattutto, delle ricche saline che si trovavano distribuite alla foce del fiume e che, in un contesto del genere, avrebbero garantito la sua definitiva ascesa a prima potenza d’Italia. A nulla valsero i tentativi di mediazione e i romani, ormai intenzionati a lanciarsi nell’inesorabile vortice della storia, si ritrovarono a fronteggiare un avversario ben più ostico di quanto pensassero, certamente il meglio organizzato tra quelli su cui, in passato, avevano avuto la meglio.
Tre le guerre che gli storici di Roma chiamano veientine e che, devastando la penisola, si protrassero lungo tutto il V secolo: nella prima (483-474 a.C.) i veienti riuscirono ad occupare Fidene, un avamposto romano situato presso la riva sinistra del Tevere, mentre il tentativo di reazione di Roma, che certamente non tardò ad arrivare, si concluse in una vera e propria tragedia, segnando una delle più infamanti disfatte della storia della Città Eterna: un esercito di circa 300 soldati, composto quasi esclusivamente dai membri della nobile gens Fabia e dai loro clientes, venne completamente annientato sul fiume Cremera, affluente del Tevere. L’onta subita, tuttavia, infiammò gli animi dei romani che, nella seconda guerra veiente (437-426 a.C.), riuscirono a vendicare la sconfitta patita: fu questa, infatti, l’occasione in cui il generale romano Aulo Cornelio Cosso ebbe la meglio in duello sul tiranno di Veio, Lars Tolumnio, riconquistando e distruggendo infine Fidene. Nella terza guerra veiente, invece, il teatro delle operazioni militari si spostò lungo le mura della stessa Veio, aspramente assediata per dieci lunghi anni dalle truppe del generale Furio Camillo.
Lo splendido racconto dello storico Tito Livio, in questo caso modellato sull’episodio dell’assedio di Troia, è pervaso da un’atmosfera di fatalità e di misticismo che ci sembra fin da subito estremamente familiare e che, adombrando i rigidi dettami della storia, sembra richiamare la grande poesia epica di Omero: abbandonata persino dagli stessi dei a cui era sempre stata devota, Veio fu costretta a piegarsi al volere del destino che, ineluttabile e ben più grande di qualsiasi umana pretesa, aveva schiacciato gli sconfitti ed innalzato i vincitori. Significativo il racconto di come Camillo, prima di dar inizio all’assedio, abbia pregato Apollo e Giunone, divinità protettrici di Veio, con queste parole:
«Sotto la tua guida, Apollo Pitico, e stimolato dalla tua volontà, mi accingo a distruggere Veio e faccio voto di consacrare a te la decima parte del bottino. E insieme prego te Giunone Regina che ora siedi in Veio, di seguire noi vincitori nella nostra città che presto diventerà anche la tua perché lì ti accoglierà un tempio degno della tua grandezza.»
Il tempio, eretto sulla cima del colle Aventino, divenne simbolo della grandezza di Roma, ad imperitura memoria della straordinaria vittoria ottenuta quel giorno, mentre ad oggi, essendo stato esso soppiantato dall’attuale Basilica di Santa Sabina, dell’imponente costruzione è possibile soltanto osservare le splendide colonne superstiti della navata centrale e l’antico pavimento in marmo policromo.

Al termine di un lungo assedio, Veio fu infine conquistata e distrutta, scontando il particolarismo delle città etrusche che, se non le prestarono alcun soccorso, addirittura, e fu il caso di Cere, si schierarono dalla parte dei romani. Così cadeva la città che, sfidando a testa alta la supremazia dilagante di Roma, seppe dimostrare che gli sconfitti, benché perdenti, sono in grado di lasciare un segno indelebile nella storia e nella memoria delle epoche future, assottigliando così lo stesso confine tra vincitori e vinti. A partire dal IV secolo a.C., la città di Veio fu ricostruita e divenne municipio romano, anche se non raggiunse mai più l’originario splendore di un tempo, mentre, ad oggi, è possibile visitare le sue rovine nell’area naturale protetta del Parco Regionale di Veio; gli alberi, sue eterne guardie reali, il verde del prezioso mantello e, infine, l’immortale ricordo di quella che fu l’antica Regina d’Etruria, restano intatti, testimonianza di un passato lontano, ma mai dimenticato.
Antonio Palumbo
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Photocredits: sito ufficiale parco di veio