Mandè – Figlio di mamma, figlio del mondo
di Adele De Prisco
Prima di parlare del succo del nostro articolo, riporto, per introdurvi, l’esperienza che Benedetta De Nicola, amica e collega, ha postato sul suo profilo Facebook.
“Ho pensato parecchio a questo post.
Mi assalivano dubbi e pensieri, ma con la paura non si va molto lontano, e seppur sia sana in determinate occasioni, sono giunta alla conclusione che questa non ne faccia parte. Racconterò una piccola storia, e vi chiedo di leggere fino in fondo e, ancora, di condividerla se doveste ritenerlo un buon modo per divulgare qualcosa di buono.
Venerdì scorso ho raggiunto un bel traguardo: la laurea triennale. Sono uscita la sera a festeggiare con i miei fantastici amici e, al ritorno verso casa, è accaduto. Rannicchiato in posizione fetale, a terra, senza un cartone, senza coperte, quasi immobile, un uomo giaceva. A Napoli si vedono tanti barboni, tante persone che ti stringono l’anima, le grandi città sono così, ma quello aveva qualcosa di diverso. Passandogli di fianco nel mio stomaco si è rotto uno specchio, PAM. Rotto.
Io, Raffaele e un’amica abbiamo deciso di dargli alcune graffe e dei cartoni, magari una coperta. Ma lui era lì, immobile, faceva un freddo cane e io sentivo le budella contorcersi. Ci suggeriscono di chiamare il 118 e così lo facciamo, quell’uomo non riusciva nemmeno a parlare, in un francese precario mi dice qualcosa, aspettiamo l’ambulanza.
– Pronto, salve, ci troviamo in Via tal dei tali, un uomo è steso a terra, non riesce a parlare, penso sia congelato, potete aiutarci?
– Ma è un clochard?
– Non lo so, forse.
Questa è più o meno la conversazione a cui ho preso parte.
Cerco di farlo parlare, gli spiego che arriverà l’ambulanza e che se non si sente bene può andare con loro. Lui annuisce, dice grazie e trema battendo i denti.
Guardando dentro quegli occhi io vedo tutto, come quando Dante vede Dio, io ho visto la sofferenza, la morte, il dolore e il mare.
L’ambulanza arriva, io offro loro le graffe, lo prendono e dopo essere salito dentro, sento che la temperatura è 35, l’infermiere alla porta dice: – Ma voi non dovete chiamare l’ambulanza per i barboni, ci fate muovere inutilmente-.
Chi mi conosce sa che io racconto oggettivamente, mi sforzo di non influenzare la storia e dico buono e cattivo tempo. Siete liberi di non crederci, ma lo farò anche ora per onestà intellettuale e perché ho bisogno che chi legge sappia la verità e non ciò che ho visto io o il mio scopo di avere un riscontro sarebbe fasullo.
Alla frase pronunciata dall’ infermiere ho sentito una rabbia tale esplodermi dentro, io non posso chiamare un’ambulanza che giunge sul posto senza nemmeno il medico a bordo per una PERSONA che io, non essendo medico, non posso aiutare ma solamente danneggiare. Una persona, signori, non un barbone, un nero, un bianco, un omosessuale, un bambino, una cotoletta impanata e fritta, una persona come vostro fratello.
– Ma lei è imbecille?- Sì, gli ho dato dell’imbecille e sono fiera di averlo fatto.
Non ricordo bene cosa mi ha detto, so solo che mi ha chiuso la porta in faccia, so solo che mi ha riempita di jastemme, so solo che mi ha minacciata di denuncia perché intralciavo non so cosa e so che si è inventato che “quello” rifiutava di andare con loro e che io gli avevo promesso un posto caldo.
Loro non lo volevano, lo volevano ributtare là, con 35 e il gelo quando quell’uomo non capiva una parola, gli avrebbero potuto dire:
– Ciao, ti va un crodino? – E lui non avrebbe capito lo stesso perché non parlava italiano. Ma io dico, ci può stare, OK, voglio credere che abbia rifiutato di essere portato in ambulanza, ma la promessa di un posto caldo?
Torno indietro, l’infermiere, prima di dire le peggiori inumanità, mi aveva detto che esistono alcuni dormitori, uno a via Toledo, che, però, arrivati al pieno, non ti accolgono. Ho provato a spiegarlo all’uomo, mi guardava assente.
Mi sono sentita persa, ho chiamato la polizia perché volevo essere tutelata, dopo le minacce a mio discapito, ma ecco entrare in scena l’infermiera che fino ad allora non aveva parlato.
– Nenné – Cerca di strapparmi il telefono dall’orecchio, mi dice cose che, a distanza di una settimana non ricordo.
È notte e io chiamo mia madre il cui marito è avvocato, mi tranquillizzano, ho aiutato un uomo, non ho intralciato proprio niente. L’infermiera pensa sia a telefono con la polizia e la chiama a sua volta, almeno così dice. Io sono seduta su uno scalone, mi viene da vomitare per lo schifo che sto vedendo, la priorità è un uomo che non sappiamo se sarebbe arrivato a domani.
Mi sento ferita personalmente, inoltre, non è la prima volta che l’istituzione mi abbandona. Il mio ragazzo mi abbraccia, ha paura per me, dopotutto mi sono laureata, dovrebbe essere una serata solo felice.
Ma io non devo avere paura, almeno quell’uomo ora è dentro l’ambulanza.
L’infermiera mi attacca, mi dicono che sto violando la privacy e altre cose che per me e per il mio avvocato sono solo modi di intimorire.
– Nenné – Vi risparmierò la discussione pre Polizia dove l’infermiera o quello che era mi sfotte dicendo di avere la quinta elementare, con la quinta si può fare l’infermiera?
Vi risparmierò le cazzate e il mio modo di difendermi.
Arriva la Polizia, inizio a piangere perché sono stremata, vogliono che io dica loro che non succederà nulla. Ma io la mano a certi esseri non la do.
Sapete che è contro la legge non fornire i documenti?
Gli infermieri dicono di non averli e non li forniscono.
– Noi non abbiamo proprio parlato, lei ci ha messo le mani ‘nguoll – BLA BLA BLA, solo bla, ora li sento come dei bla, sul momento mi faceva male, la bugia evidente, il mancato rispetto anche per me, sì, sono umana e anche quello mi ha fatta intristire, il pensiero che un giorno mio figlio potrebbe aver a che fare con gente che si comporta così, mille pensieri.
I poliziotti fortunatamente sono meglio di quello che a 16 anni, dopo aver subito una molestia in stazione, non mi inviò la pattuglia e mi disse: – signorina ma lei è sicura di aver visto un uccello con le ali?
Questi provano a risolvere.
– Non hai visto la signora come si rivolge pure a me? È maleducata pure con me.
Vomito, ormai sono allo strenuo.
Ascolto l’infermiera dire che “Più sono ricchi, più… Qualcosa… Io ho due figli…”
Ho mal di testa e mi dispiace per i figli dell’infermiera.
Ormai non parlo più, lo porteranno in ospedale, è vivo, quell’uomo non morirà stanotte.
L’infermiere che durante tutto il tempo continuava a inveire, fa un discorso allusivo contro di me dicendo che non mi denuncerà se io non lo farò, non parlo anche se vorrei, rifiuto di dar loro la mano.
Il poliziotto esclama: – Purtroppo sei troppo sensibile.“
Quanto ci ha raccontato Benedetta è probabilmente solo uno dei tanti casi simili che accadono nel mondo. Casi di ignoranza, casi di cattiveria, malignità… Ma non credo ci sia bisogno di aggiungere altro, di fatto il testo parla da sé. Scrivo, però, per ricordare a tutti che sulla grande macchia nera che è il nostro pianeta terra, c’è ancora qualcuno che brilla di bontà. Ed è il caso di Ibrahim Coulibaly, un uomo che, arrivato dall’Africa occidentale nel 2015, ha creato, con le sue forze, Mandè, un’associazione per tutte le persone bisognose.
Mandè, che letteralmente vuol dire “figlio di mamma/figlio del mondo”, è l’organizzazione, portata avanti non solo da Ibrahim ma da tanti altri ragazzi provenienti dall’Africa occidentale, che si preoccupa di aiutare ed integrare nella società tutte le persone che lo necessitano.
«Cerchiamo di aiutarli a rispettare le leggi che non sempre conoscono» ci spiega Ibrahim «e li aiutiamo anche con i problemi giudiziari in cui delle volte incorrono proprio perché non sempre sanno ciò che è giusto qui e cosa no. Oltretutto grazie ad alcuni medici li possiamo aiutare anche in caso di malattia perché» aggiunge «se non hai salute perdi un po’ di vita.»
Questo giovane volontario ci specifica che l’associazione non ha fondi sui quali poter fare affidamento ma si basano solo sulla loro esperienza, su quanto è accaduto a loro e su quel che hanno imparato nei tanti viaggi in mare, cercando di aiutare da qui, per quanto gli è possibile, anche i loro cari rimasti in Africa.
«Quando sono venuto in Italia molte persone mi hanno aiutato, anche solo con una parola di conforto, così ho provato a ricambiare perché a casa mia funziona così. Mi hanno sempre insegnato che bisogna aiutare tutti.» – dice. – «Noi non badiamo alla nazionalità, a noi non importa. Aiutiamo chiunque, anche italiani, francesi. Chiunque. Quando vedo qualcuno che è triste mi avvicino e chiedo sempre che cos’ha, se posso aiutarlo. Perché dobbiamo darci una mano a vicenda.»
Mi piacerebbe davvero dire qualcosa a riguardo, sia sull’episodio che ci ha raccontato Benedetta, sia sulla bontà di quest’uomo, ma credo davvero che non ci sia molto da aggiungere. Che ogni tipo di moralismo o perbenismo sarebbe inutile in casi del genere, per cui niente discussioni sul razzismo o sull’ignoranza vestita di cattiveria dell’uomo. Vi lascio semplicemente alle parole di quest’uomo che si raccontano da sole. Parole che raccontano una profonda verità che sa di bontà pura. Di una sincerità che profuma di primavera e che dovremmo portare dentro di noi.
«Aiutate sempre tutti. Se qualcuno lo vedete triste, avvicinatevi, chiedetegli cos’ha e se ne avete la possibilità, dategli una mano. Io cerco di aiutare sempre tutti. Non mi interessa se è africano, italiano o della sua religione. Io sono cittadino del mondo e per me tutti sono uguali. Abbiamo tutti bisogno di aiuto, non possiamo pensare solo a noi stessi. Se ci diamo una mano il mondo potrebbe tornare in pace.»
E continua: «La nostra associazione deve ancora crescere, abbiamo una lunga strada ancora da fare e so che crescerà anche quando io non ci sarò più perché la strada per la felicità è lunga, ma esiste. Nonostante i pregiudizi, io non mi arrendo. Dobbiamo donare felicità.»