Mamma parto, ma ti racconto la musica indie
di Claudio Palumbo
Esce La musica italiana di Calcutta e Giorgio Poi.
Erano proprio lì quando i social cominciavano ad imporsi e sembravano il passe-partout per sentirti in connessione con il mondo, ma in realtà non t’eri mai sentito così solo, compagno di te stesso: “spegnete i colori, i tormenti, i dolori, gli ombrelli e i malumori, che noi, che noi stiamo bene anche da soli”.
Così canta Gazzelle nascosto dalla sua frangetta, i suoi occhiali hipster e l’introversione come scudo contro chi non si è mai sforzato di comprenderci.
Erano proprio lì, quando lontano dal branco (sì, hai ragione, dal gruppo) fin dai banchi di scuola ti dicevi “ma tanto quella non ci starà mai” e avresti solo voluto gridargli sotto chili di “occhiaie”: “baciami tutte le ore, come fanno le lancette, tic tac”, sì, proprio come quella canzone di Galeffi.
Magari addirittura eccedere, ridondante e mieloso, nel tuo grido d’amore e dirle “vorrei essere la canzone per cui stringi le cuffie di nascosto in metropolitana, o che canti quando sei sola per strada e quando passa qualcuno fai finta di sbadigliare, vorrei essere la canzone che ti fa perdere il filo del discorso, la canzone che ti dice chi sei senza fartelo capire”. Ma proprio quella metropolitana, nella sua costante cadenza dei ritardi, nel suo asettico mormorio di rumori inutili ti imponeva l’etica del silenzio, e quindi al massimo potevi urlarglielo solo con i tuoi occhi, sfigato.
Ah, comunque, era Lo Stato Sociale, proprio loro, però prima che andassero a Sanremo con la vecchia, perché poi chi arriva lì smette di capirci, suppongo.
Ormai sono cresciuto e vivo un po’ così, inciampando coi piedi nel mio nomadismo emotivo e nelle mie felpe doppia XL, “ho i vestiti sparpagliati, e i ricordi strappati”, proprio come Franco 126 e Carl Brave dicono; loro vengono dalla borgata e io un po’ mi ci rispecchio.
Stasera esco, Heineken e qualche cicca, voglio urlare manco fossi Vasco “che non esisto, e tu sparisci con me, bevo la notte e sfido la morte”, ma invece era Cosmo e loro erano sempre lì.
Costantemente erano lì, anche quando arrivavo ad essere invidioso dell’apparente felicità degli altri, cadendo nel tranello di chi ha forse tutto ma troppo gli sfugge dalle mani, quando nel mio pessimismo cosmico mi dicevo: “Ho disegnato il mare in un parcheggio, ho finto che l’asfalto fosse sabbia, ho fatto dei castelli in aria, ma sono uscito da una gabbia. Agli altri è andata sempre molto meglio, ma questa vita è bella perché cambia e ho fatto dei castelli in aria ma sono uscito da una gabbia”. Ma questo mantra era di Frah Quintale.
Mamma, erano ancora lì quando le gambe mi tremavano dalla paura e nella valigia avevo solo un biglietto per Londra, l’apprensione e i soldi dei nonni e un bagaglio a mano di incertezze, Giorgio Poi e Calcutta avrebbero poi composto il resto.
Nella loro La musica italiana ho sentito il peso nostalgico dei miei vinili, dei miei amici che non capivano la “mia” musica e il mio sguardo dritto nel vuoto, della tristezza empatica di certi artisti, del fatto che mi potesse perfino mancare il parmigiano sulla pasta che mi preparavi, che lì sarei stato a fare i conti con vertigini, asfalto e buste della Tesco.
Insomma mamma, non saremo come voi giovani degli anni sessanta che sono stati istituzionalizzati come vera controcultura, i vostri movimenti studenteschi, la nouvelle vague francese e Woodstock ci sembra un ricordo sbiadito come il Festivalbar.
Sappi però che anche noi vogliamo urlare qualcosa, forse il nostro moto è meno collettivo ma più interiore, forse abbiamo bisogno di urlare contro la nostra alienazione, contro la migrazione che ci porta lontano da casa, abbiamo bisogno di loro, che non saranno Lucio Dalla e De André, ma che cantano l’introversione sovversiva nella mia generazione. Chiamalo indie pop, chiamalo itpop, insomma, in ogni caso loro erano sempre lì.